giovedì 14 aprile 2011

Cosa cambia, in profondità, nel sistema scolastico.

Gian Carlo Sacchi

Riforma è la parola magica che viene pronunciata tutte le volte che si parla di scuola, ma sappiamo che questa parola ha un significato più superficiale che riguarda l’organizzazione del servizio scolastico ed uno più profondo che vede i riflessi su di esso di mutazioni che avvengono a livello sociale ed economico.
Di solito il dibattito, oggi prevalentemente mediatico, si ferma al primo, mentre sarebbe più importante andare in profondità per riflettere su strategie politiche, che, come tutti sostengono, nei riguardi della scuola, dovrebbero essere al di sopra delle contese rispetto alle maggioranze ed ai governi di turno.
C’è un’espressione che circola in questo periodo che è “essenzializzazione”, che da un lato sta ad indicare riduzione e risparmio, e, dall’altro, come dice il nuovo titolo quinto della Costituzione, livelli di prestazione per il mantenimento dei diritti di cittadinanza, sui quali innestare poi il federalismo.
Nella storia del nostro sistema il miglioramento è sempre stato accompagnato dall’aumento quantitativo (più anni, più ore, più contenuti) e questo spiegava le maggiori garanzie in termini di diritto allo studio. Visto che si tratta di scuola gestita direttamente dallo stato è da esso che tutto dipende, in termini di programmi, finanziamenti, professionalità.
Eventuali contributi presenti sul territorio potevano avere il carattere del prestito professionale e dell’integrazione.
Se invece si passa da una concezione totalizzante, come era in passato, ad una minimalista, come sembra essere quella attuale, quest’ultima per un verso dovrebbe voler garantire i predetti livelli essenziali, che però non sono ancora stati definiti, sul piano nazionale, e lasciare molto più margine di autonomia alle singole realtà territoriali, ma anche chiedendo loro misure alternative di finanziamento.
I soggetti territoriali ,che possono essere pubblici o privati, a questo punto non sono soltanto chiamati ad integrare l’offerta, devono coprogettarla, non in senso puramente organizzativo, ma culturale e pedagogico. Questo pertanto da un lato lega il sistema formativo sempre di più al proprio territorio, ma, dall’altro, deve avere l’autonomia culturale e professionale per garantire comunque la qualità universalistica dei diritti e dell’apprendimento.
Tale autonomia non è quindi un connotato burocratico dell’istituzione scolastica, ma un porsi con competenza e propositività come contributo allo sviluppo del territorio stesso, a partire dalla contaminazione con le culture e le tradizioni locali e la valorizzazione delle emergenze presenti (musei, biblioteche, beni paesaggistici, ecc.), come veri e propri luoghi in cui si impara, in modo diverso( attingere direttamente alle fonti, ai reperti), dal quale possono derivare direttamente risorse, ma anche giudizi degli utenti, oltre alla valutazione, prevista sul piano istituzionale, circa il mantenimento e lo sviluppo dei predetti livelli essenziali.
Qui occorrerebbe affrontare il problema del metodo più che del cambiamento di strutture o di contenuti, che sappiamo essere direttamente connesso con la motivazione ed i risultati dell’apprendere.
La formazione, formale e non formale, non è, come spesso viene considerata, una componente del marketing territoriale, ma una vera strategia per lo sviluppo, in grado di generare un circuito virtuoso tra progresso economico e identità locale, che sempre più deve esercitare un’azione di presidio, e da qui proiettarsi in una dimensione interculturale e di innovazione.
Sul piano didattico tutto ciò comporta poter accorciare le distanze tra il sapere e il fare, ricorrendo alla così detta didattica laboratoriale, saper elaborare e gestire un curricolo flessibile, costruire un’offerta fondata su una pluralità di luoghi di apprendimento, impostare, fin dall’inizio della scolarità, un processo formativo capace di proiettarsi lungo tutto l’arco della vita, che sappia superare il localismo ed implementare progressivamente le competenze.
A questo punto non si può più pensare ad un’unica fonte di finanziamenti, aldilà delle disponibilità. Occorre riorganizzare la spesa per il servizio scolastico, a cominciare dal federalismo fiscale, che comunque deve prevedere interventi sussidiari, per mettere in circuito tutte le risorse che ad esso possono essere indirizzate. La crisi economica ci fa capire che non si tratta soltanto di consistenza finanziaria, ma anche di strumenti di governo, a livello regionale e locale, di modalità di programmazione e concertazione territoriale, di uso efficace dei fondi comunitari, ecc.
Il problema è che i soldi non possono più essere erogati o tagliati con modalità “lineari”, bisogna che siano sempre più vicini alla domanda ed ai bisogni delle diverse realtà, e nessuna componente di questo sistema può più comportarsi in maniera autoreferenziale. L’efficienza ed i risultati dei sistemi nordici ci danno indicazioni in tale direzione.
Nell’ottica del federalismo fiscale si deve pensare ad un servizio che deve contribuire in ultima analisi a fare reddito se si vuole che ci sia una ricaduta positiva sulle risorse dello stesso. Se verrà imboccata questa strada la valutazione delle scuole, di cui tanto si parla, servirà a determinare sul piano politico - sociale gli standard ed al confronto internazionale, mentre su quello finanziario ci dovrebbero pensare appunto il reddito ed il conseguente fisco a premiare le situazioni virtuose, più che la mannaia del ministro.
Se cambia dunque il panorama bisognerà cambiare anche il modo di starci: la singola scuola non è più sufficiente, ed allora la promozione delle aggregazioni: valorizzare il contributo dei singoli e finanziare i progetti di rete. Va promosso e regolamentato (non burocratizzato) l’autogoverno delle scuole, si devono costruire e saper governare sistemi formativi territoriali; essi infatti non dipendono dalla politica, ma devono esercitare una capacità di azione autonoma che la aiuti a realizzare lo sviluppo del territorio, incidendo sulle scelte di governo.
Occorre infine definire nuovi profili normativi: a livello nazionale, centrandoli sulle regole, sulle garanzie per i cittadini e sul controllo dei risultati; a livello regionale, con deleghe agli enti territoriali, per la programmazione e la gestione del servizio. Vanno definite altresì le intese stato – regioni per la regolamentazione dell’autonomia ed il riconoscimento della rappresentanza delle scuole autonome. Ci vogliono leggi regionali di sistema, proprio per evitare che pezzi di formazione vengano aggiunti a politiche settoriali, usando la scuola come cassa di risonanza, ma rimettere, come si è detto, la formazione al centro dei modelli di sviluppo del territorio.
E questo vuol dire ancora una volta riorganizzare anche la spesa.
Non si può dunque pensare che i tagli del personale siano indifferenti sul piano del modello organizzativo e non è tanto una questione di numero di stranieri per classe. Torniamo a parlare di organici di istituto più che di vincoli sui tempi scuola, di reti di plessi e di istituti comprensivi, più che punti di erogazione del servizio, di possibilità di integrare le risorse, uscendo dai limiti del patto di stabilità degli enti territoriali, per evitare che i maggiori oneri si scarichino soltanto sulle famiglie, determinando dei veri e propri casi di abbandono non imputabili alla solita scarsa motivazione.
Prima di redigere la legge finanziaria pensiamo ai livelli essenziali, che devono garantire i diritti e farsi carico anche della qualità dei servizi; cerchiamo soprattutto di agire in profondità sulle modalità organizzative e nell’esercizio professionale.